Pubblicità
Pubblicità

No ai botti di Capodanno: la storia di Birba

di Redazione Quattrozampe

Birba, di Monica Vicentini

Vi raccotiamo la storia triste ma speriamo utile della nostra amica Monica e della sua cagnolina Birba che ora non c’è più a causa degli inutili botti di Capodanno e della scelleratezza di chi si ostina a farli, incurante di quanto possono essere dannosi, se non letali, per i nostri amici a quattro zampe

 

“Gli addobbi festosi riportano all’esperienza del mio cane con i petardi e alla sua morte, a causa di crisi epilettiche scatenate probabilmente proprio da quell’evento.

I miei appelli stanno contribuendo alla sensibilizzazione dei traumi che arrecano i botti di Capodanno sugli animali. Il dramma subito mi ha incitata a divulgare l’esperienza, raggiungendo traguardi insperati. I messaggi apparsi su quotidiani e periodici sono arrivati al cuore della gente.

Quest’anno vorrei fosse Birba a raccontarsi, a descrivere l’episodio, ricostruito come “vissuto reale”.

Ringrazio chi, forse, avrà letto queste righe e auguro a tutta la Redazione, con rispettive Famiglie, il sincero augurio per Feste Serene”.

Quindici dicembre duemiladodici

Brano tratto da “La Storia di Birba”
di Monica Vicentini ©
Riferimenti a situazioni e persone, sono spunti reali.

 

L’umano indossa il vestito blu elegante. Lei infila le scarpe nere con i tacchi alti. Ho capito: questa sera non andrò insieme a loro. Escono a cena. Brontolavano: in quel locale i quattro zampe non sono ammessi, quindi resto qui. In giardino sto bene: corro, controllo, dormo e talvolta abbaio insieme ai cani del vicinato.

Eleganti e profumati loro due sono saliti in auto: partiti. Wow: inizio a scavare! Sotto all’azalea, quella rossa, prendo l’osso di stinco che ho sotterrato il mese scorso. Ho già cenato, ma una rosicchiatina male non mi farà.

So bene che loro torneranno, lasciandomi anche salire sul divano. Acciambellata nella coperta, quella nera con le pecorelle bianche, come tutte le notti, mi addormenterò stretta all’altra femmina della famiglia, la bipede.

Nella cuccia mordicchio tranquilla, tenendo sotto controllo il cancello. Da qui mi accorgo che, là fuori, qualche cosa non va. Sento voci: bambini. E’ tardi, cosa fanno in giro da soli con questo buio? Tre sagome nella nebbia. Non distinguo ancora i loro volti, ma conosco bene il gruppetto. Qualche volta passano davanti al portone. Mi chiamano, io corro e quando arrivo, sghignazzando se ne vanno via. M’illudo sempre, sperando in una loro carezza. Spesso mi avvicino con la pallina gialla, ma nessuno di quei ragazzini ha mai voluto giocare con me.

Dalla tana, nascosta, mi accorgo che sono davanti all’ingresso. Fermi lì e zitti: strano! E’ la prima volta che si comportano così. Forse questa sera vogliono divertirsi insieme me. Aspetto; conoscono il mio nome, andrò solo se mi chiameranno.

C’è silenzio nella strada. Nella nebbia solo quel trio. Li sento bisbigliare ridacchiando. All’improvviso inizia il coro a tre voci: “Birba-aaa, vieni-iii!”.

“Sì, sì, sì!”, penso. Scodinzolando mi avvicino, contenta di trovarli lì, questa volta, ad aspettarmi. Con la zampina mi accosto, grattando sulla rete che mi separa dal terzetto, immobile al cancelletto. Sorridono; sono contenti di vedermi, lo so! Struscio con il corpo lungo il battente di acciaio. E’ chiuso, ma dalla rete a maglia larga potrebbe passare la pallina! Corro a prendere quella che ho lasciato vicino al gelsomino, forse giocheremo al “Tira-tu-che-io-la-riporto”!

Vedo che ognuno di loro ha in mano dei bastoncini colorati, non capisco cosa possano essere. Giochi nuovi? “Sì, sì, sì!”. Ne hanno lanciato uno ciascuno, nel giardino, sull’erba. Mi accosto agli oggetti che non conosco. Annuso. “Che siano leccornie tutte per me?”. Un odore acre, di bruciacchiato, mi raschia giù nella gola. Arretro.

Abbagliata da una luce potente mi blocco. Un botto assordante mi entra nella testa. Ammattita dal fragore. Incespico. Cado. Fatico a rialzarmi.

Scorgo le sagome dei mocciosi, chinati con le mani sulla pancia: sghignazzano. Non sento, sono sorda! Distinguo, a fatica, altri legnetti colorati volare per aria. Li lanciano nella mia direzione. Inerme e indifesa capisco cosa stanno tirando: petardi. Ognuno di loro ne ha una manciata stretta tra le dita.

Non conto gli scoppi: boati continui. Scappo; ci provo. Dove? Sbatto la testa contro il tufo del muretto, quello che circoscrive il terrapieno con la magnolia. Non vedo più niente!

Conosco il giardino, corro alla cieca, almeno tento. Fuggo nel retro della casa, ma ho perso l’orientamento e mi ritrovo davanti al cancello. Avverto continue vibrazioni sul terreno: lampi e tuoni proseguono. Di nuovo sorda. Cado, ancora. Poi: tutto nero!

Scorgo due luci: fanali vicini al cancello. Ora vedo.
Riconosco il rumore, è l’auto familiare. Adesso sento.
Mi avvicino a salutarli. Cammino.
Prima sognavo? E’ quello che spero…

di Monica Vicentini

Pubblicità

© Riproduzione riservata.