Certosino: il ‘gatto nazionale’ dei Francesi
L’aspetto del Certosino, solido gattone arrivato in Europa ai tempi delle Crociate, è ben presente nell’immaginario collettivo.
Non tutti, però, sanno che il comune gatto grigio non va mai confuso con il Certosino, una razza molto antica, rara e pregiata, con uno standard rigidissimo.
La sua bellezza, innegabile, ma non ‘vistosa’, colpisce soprattutto chi ne apprezza l’eleganza sobria e discreta. In ogni caso, lui non ha nulla da invidiare al fascino di altri felini più appariscenti.
Ha una splendida pelliccia di colore grigio-azzurro più o meno chiaro, con riflessi blu (ancora più evidenti alla luce del sole), molto densa, leggermente sollevata e gonfia per via del folto sottopelo.
La corporatura è muscolosa, il petto largo e ben sviluppato (soprattutto nei maschi), le zampe corte e forti. Le caratteristiche ‘bas joues’ (guance molto sviluppate con sottoguancia), più vistose nei maschi adulti non castrati, danno alla testa una particolare conformazione trapezoidale e al muso un’espressione quasi ‘sorridente’.
Gli occhi grandi, vivaci e brillanti, sono di un caldo colore giallo topazio. L’espressione è sempre vigile e attenta, da impareggiabile cacciatore quale in effetti è.
Una peculiarità dei soggetti adulti è il marcato dimorfismo sessuale (differenze morfologiche evidenti tra i due sessi): la femmina è nettamente più piccola del maschio, il suo petto non è così ampio e le ‘bas joues’sono meno pronunciate.
Le origini del Certosino
Molti pensano che il gatto Certosino porti questo nome perché il colore del suo mantello ricorda l’abito dei monaci cistercensi, oppure che sia stato allevato e selezionato da loro.
La tradizione popolare parla di gatti grigi, portati in Francia dai Templari, ospiti del monastero della Grande Chartreuse (Grande Certosa) al ritorno dalla Terra Santa.
Si narra che, in epoca di carestie e pestilenze, i monaci certosini avessero molto apprezzato il dono dei piccoli felini, abilissimi cacciatori di topi, decidendo, perciò, di allevarli a difesa delle riserve alimentari dei conventi e dei preziosi codici manoscritti.
In realtà, il Certosino non è stato allevato dai monaci cistercensi, né il suo colore ricorda quello del loro saio.
Quasi sicuramente proviene dalle fredde regioni montagnose a Nord della Siria, come testimonia anche il suo fittissimo mantello. Il nome deriverebbe da ‘pile des chartreux’, una morbidissima lana spagnola.
Viene citato in alcuni testi del XVIII secolo (tra cui il “Dictionnaire universel du commerce, d’histoire naturelle, des arts et métiers” di Savarry des Bruslon, dove per
la prima volta gli si attribuisce il nome di Chat des Chartreux), che si soffermano soprattutto sulla bellezza del suo mantello grigio-blu, sfortunatamente molto apprezzato dai pellicciai.
L’allevamento moderno del Certosino risale, invece, agli anni Trenta del secolo scorso, quando le sorelle francesi Léger iniziarono una metodica selezione dei gatti blu che popolavano Belle-Île-en- Mer.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale la razza è stata spesso ibridata e confusa con il British Shorthair Blu, da cui in realtà si differenzia profondamente, essendo frutto di una severa selezione naturale e non di incroci mirati tra gatti a pelo corto.
Forte, robusto e capace di adattarsi alle più svariate situazioni, questo piccolo felino sa comunque apprezzare gli agi della vita casalinga.
L’intelligenza vivace, unita a un’indole tranquilla e socievole, ne fa un perfetto animale da compagnia, calmo, equilibrato e rassicurante, mai invadente o appiccicoso.
Sempre molto disponibile, ama il contatto umano, ma non teme la solitudine. Ai giochi sfrenati preferisce generalmente pigre coccole. In generale, detesta il chiasso e la confusione, perciò il suo padrone ideale è calmo e poco rumoroso, come lui, che miagola con grazia, senza mai alzare la voce, comunicando il suo affetto in modo dolce e discreto.
Non lo lascia troppo a lungo da solo, ma, al tempo stesso, non pretende di prenderlo continuamente in braccio e manipolarlo quando lui non ne ha voglia.
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A cura di Giulia Settimo
Foto Roberto Della Vite
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